giovedì 29 ottobre 2009

«Affidarsi», di Franz Krauspenhaar




Vorrei tenerti sotto un sole
sparito nel nulla, nel pianeta
dei nostri desideri rossi.

Stellari. Vorrei sentire il fruscio
della tua bocca sul cuscino
delle mie piccole mani salde.

Vorrei che ti affidassi a me.
Che fossi ad occhi chiusi,
respirando il mio sale,
la mia pelle di uomo maturo
la mia ansia e la mia forza
di vivere. Vorrei che fossimo
insieme nel mondo, senza spazi
chiusi, o soltanto stanotte,
tra le nostre mani, nell’intreccio,
nel susseguirsi di baci che colpiscono
al petto; sono “effet revolver”
di emozioni sfinite, fino al mattino.
Noi dentro di noi, io dentro di te.

Come perla e conchiglia, come virus
e infezione, come malattia e danno
e saliva e labbra e lingua e occhi,
e i nostri sessi che sembrano dire
e dire: le parole di qualcosa che non
so pronunciare. Che sta dove forse
il tabacco è finito, la birra è sfumata,
e nulla più conta, e le strade si perdono
e l’abbandono è seriale; e la mosca
al naso contende la vittoria
alla tigre. Se tu scendi tra le scale
e mi raggiungi sotto al fuoco.
Se scaldi tutti questi decenni
in un fiotto d’amore, anche uno
anche per sempre uno. Restio
a dare l’anima se non al diavolo,
con te abbandonerei le ali falcate
del pipistrello; per rabbia, e vendetta.

Fabbricami, fammi sentire nuovo
il corpo come scudo emerso,
come nicchia per l’amore duro
come foto delle nostre menti
come tassello di un ricamo
monstre; e come corazza
di lino, come mare a otto,
come stampo convesso
d’ogni risoluzione.

Forse, un approdo.
C’è chi non dice mai “sempre”,
o che l’amore è solo una parola
solo la somma di zeri, e minuti
predati. La mia storia è cosa tua,
è un fascio di fogli, nervi, maglie
di bronzo, come ai cavalieri antichi
si bardava il corpo, per l’attacco.

Seminami come zizzania, se alla fine
non saremo capaci. Pietà sarà la dura
conquista, nel caso dello zero, del meno.
O stupirsi: di essere vivi insieme.
Di coltivare, di tenere la barra a dritta.

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